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(voce di Luca Grandelis)1. I neo-realisti (in parte, ma non del tutto, solidali con gli esponenti della cosiddetta popsophia) dicono, in linea generale, di aver scoperto, o riscoperto, che la realtà esiste, che esistono gli oggetti, che le cose sono le cose. «Realismo ingenuo», si sarebbe detto un tempo. Si potrebbe dire che abbiano scoperto l’acqua calda. E invece non hanno scoperto nemmeno l’acqua fredda ‒ la quale, con la sua vitalità, il suo divenire, la sua forza seminale ed originaria, fu oggetto di culto fin dai tempi più remoti, mentre il neo-realismo sembra desacralizzare la natura per consacrare, invece, artifici più o meno obbrobriosi.
Il neo-realismo, infatti, sembra tendere a coincidere con la popsophia nella misura in cui entrambi considerano anche i prodotti della cultura di massa (in quanto oggetti tangibili, reali, agenti e interagenti nella realtà quotidiana) degni di riflessione filosofica. Una demistificazione, una liquidazione dell’»alta cultura», queste, che sono, forse, espressione e conseguenza anche della desacralizzazione, della secolarizzazione e della riduzione, se non del riduzionismo, materialistici propri di molta odierna cultura laica, se non esplicitamente atea.
2. I non filosofi, le persone comuni, dimostrano di essere più filosofi dei filosofi neo-realisti. Appunto perché le persone comuni usufruiscono degli oggetti, degli accessori, delle semplici cose, così come usufruiscono, letteralmente, dei prodottidell’industria dell’intrattenimento, senza avere la pretesa di scovarvi nascosti significati filosofici ‒ che, forse, semplicemente non ci sono.
3. Il neo-realismo sembra voler blandire il grande pubblico attribuendo un significato filosofico ai prodotti e alle merci (per definizione effimeri e meramente strumentali) cui tale pubblico è dedito. Ma il grande pubblico non ha affatto bisogno, né avverte il desiderio, di sentirsi nobilitato. Chi guarda i reality show vuole piuttosto (magari inconsciamente) sentirsi confortato nella propria largamente diffusa e condivisa stupidità; e chi segue la nota serie newyorkese (peraltro intollerabilmente noiosa e ripetitiva dopo le rime due o tre puntate) cerca uno specchio lindo e patinato del proprio mondo stordito e vacuamente edonistico, dal quale sono esclusi Dio, il dolore, la morte ‒ da cui sono esclusi, insomma, tutti i problemi che, proprio perché privi di una soluzione definitiva, da sempre alimentano la riflessione filosofica, e dei quali la società di oggi tenta in ogni modo di disfarsi, con vari narcotici di natura chimica, culturale o pseudo-culturale. Comprare scarpe e borsette, passare da un letto all’altro, vedere il prototipo della «scrittrice» non in una Emily Dickinson, una Sylvia Plath o una Virginia Woolf, ma in una cronista mondana e di costume, e auspicare,come le donne hanno fatto, senza molta fantasia, in ogni epoca, un compagno o un marito facoltosi, ha ben poco di filosofico; tutto ciò può essere, semmai, oggetto di un’indagine sociologica sui comportamenti del gentil sesso (i quali però, nella sostanza, non paiono cambiare di molto: basta rileggere Balzac).
4. Marx, certo, diceva che nelle merci è insita una filosofia, o addirittura una metafisica; non che la filosofia stessa dovesse trasformarsi in una merce. In parole povere, non scrisse il Manifesto per far soldi, ma, al contrario, nell’utopistico intento di abbattere la logica liberista e mercantile, di demistificare il feticismo del denaro e delle merci. E l’utopia marxiana, come da tempo si è osservato, difficilmente poteva nascere al di fuori del messianismo ebraico; né l’ossessione kierkegaardiana della ripetizione è molto diversa (anche questo è già stato osservato) dall’ansia spasmodica della rivoluzione, della revolutio, che in fondo è, etimologicamente qualcosa che «ritorna» (volvuntur saecula).
5. L’alta cultura non è la cultura popolare. Non c’è nulla da fare. Non si può servire a due padroni. Virginia Woolf, è vero, ipotizzava l’esistenza di una third literature, intermedia fra i romanzi d’appendice e i capolavori. Opere con più livelli di lettura, con significati superficiali (la trama che si segue ingenuamente per vedere come finisce) e messaggi profondi, polivalenti, polìsemi. Forse Moby Dick, Il Signore degli Anelli, Il Nome della Rosa, Insciallah rientrano in questa sfera. Ma sono casi rari.
6. Cacciari e Severino hanno avuto larghi consensi da parte di un pubblico vasto. Ma non hanno, a tal fine, snaturato il loro pensiero, che continua ad essere sostanziale, profondo, complesso, iniziatico quasi.
7. Lo studio filosofico, almeno nella forma semiologica, della cultura di massa non è cosa nuova. Lo faceva Eco cinquant’anni fa. Ma, allora, il discorso della semiologia assumeva la cultura di massa come oggetto d’indagine, anzi come bersaglio di una guerriglia semiologica che avrebbe dovuto porre le masse al riparo dalla persuasione occulta dei media; la semiologia non diveniva cosa fra le cose, merce fra le merci, per poi illudersi di poter mantenere, mimetizzandosi, la sua specificità e la sua autonomia.
Peraltro, la guerriglia semiologica, come dimostra il mondo d’oggi, fallì nel suo intento; anzi, finì forse per giocare a favore del nemico, proprio perché diede alla sottocultura mediatica una legittimazione, una dignità e un’importanza che non aveva, e non voleva avere. Da allora, dire ‒ poniamo ‒ che i veri poeti sono i cantanti, e i veri artisti i pubblicitari o i fumettisti, divenne una tipica freddura da snobismo culturale; e mascherò, e legittimò, tanta ignoranza, come se l’ignoranza non si reggesse ottimamente in piedi da sola. E Guy Debord studiava, anzi riproduceva nel suo cinema, la cultura di massa ‒ ma solo per distorcerla, decostruirla, straniarla, per mostrarne la menzogna e il vuoto, non per attribuirle un significato e uno spessore che non ha e non ha mai voluto avere.
8. Nella sfera mediatica, il mezzo è il messaggio. Nell’arte, no. I Ricchi e Poveri componevano secondo il sistema tonale (sostanzialmente inalterato, anche nella musica colta, almeno fino a Wagner). Mozart anche. Con esiti decisamente diversi. Poi ognuno ha i suoi gusti.
9. Che i Beatles possano essere riscritti, o meglio riarrangiati, nello stile di Purcell, dipende dal fatto che il sistema tonale è il medesimo. Ma ciò non significa che la musica popolare abbia la stessa dignità artistica di Purcell; né che «Love, love me do You know I love you» eccetera abbia uno spessore semantico, una densità di significati, una evocatività fonosimbolica paragonabili a quelli, poniamo, di «Ye Gentle Spirits of the Air, appear; / Prepare, and joyn your tender Voices here».
Mario Luzi scriveva in italiano. Io anche. Io non sono Mario Luzi.
10. L’avanguardia, certo, era consapevole della dialettica fra arte e mercato. Ma, appunto per questo, non assumeva supinamente le logiche del mercato, bensì cercava (il più delle volte senza successo, almeno sul piano, appunto, commerciale) di demistificarle.
11. Il fatto che si vendano, o si vendessero, molti dischi di Bach, non significa che questi avesse scritto musica per soldi. Che l’arte e la musica cólte possano essere riprodotte in serie è una fortuna; ma ciò non significa che un’esecuzione dal vivo non abbia una sua vibrazione irripetibile e memorabile, e che ogni opera d’arte non abbia, nella sua materialità, nella sua fisicità, nella presenza-assenza della sua astanza, come la chiamava Cesare Brandi, una sua aura, un suo mistero, una sua intima luce.
CertoGlenn Gould, canadese come McLuhan, fece, innegabilmente, della sfera mediatica il suo ambiente d’elezione, e una parte essenziale del suo essere artista; ma, appunto, straniò e alterò dall’interno, con la sua individualità perentoria, le strutture e le convenzioni della comunicazione mediatica, senza soggiacere alla logica impersonale della riproducibilità, e anzi scuotendola e mettendola in crisi. Senza contare che il suo pensiero sulla musica, la sua riflessione metamusicale, restano affidati alla carta: quella dei suoi lucidissimi scritti sulla musica e quella, fittissima di appunti, del suo archivio.
12. Con tutto ciò, non è detto che la comunicazione e la civiltà mediatiche e audiovisive siano sempre e comunque prive di un retroterra filosofico e speculativo.Andrebbe, in effetti, compiuto, o proseguito, un serio studio filosofico su certo cinema che realmente e volutamente cela uno sfondo sapienziale, ben più dei telefilm: Bergman e l’esistenzialismo, Kurosawa e la filosofia orientale (ma anche i valori dispotici, prefascisti, dello shogunato), Kubrick e Tarkovskij di fronte ai misteri del cosmo, Allen e il tragismo ebraico, KieÅ›lowski e il ripiegamento nel privato sotto la cappa della dittatura, Pasolini oltre il neorealismo, nel vivo delle contraddizioni del populismo marxista, il situazionismo di Debord, il nuovo cinema romeno e le delusioni della democrazia, la rappresentazione della figura del filosofo in certi grandi registi, come Montalto, Rossellini, De Oliveira, Jarman, Bressane. Ma sarebbero, con tutta probabilità, discorsi troppo impegnativi per raggiungere, oggi, un pubblico non specialistico.
13. Si parla di un universo del quale la scienza avrebbe ormai chiarito tutti gli arcani, senza lasciare più spazio alla libertà dell’uomo, e negando la sua centralità e la sua unicità. Eppure, l’emergere e il persistere della vita, proprio perché apparentemente casuali, e anzi estremamente improbabili, paiono essi stessi un miracolo. Che, nel cosmo come oggi lo conosciamo, o lo rappresentiamo, la materia prevalga sull’antimateria, che l’entropia non abbia già trasformato tutta la materia in pura energia, dissolvendo così ogni corpo terreno o celeste ‒ che, insomma, io sia qui, davanti a questa pagina, a pensare e a scrivere ‒ tutto questo è, di per sé, un miracolo, ben al di là di ogni umano artificio, di ogni terrena cogitazione. La natura, di per sé ‒ la natura umana come quella fenomenica ‒, è fonte inesauribile di riflessione e di ricerca, più di ogni, diceva Leopardi, umano accidente. Essa non si riduce ad oscura hyle, a materia senza legge né senso; per il semplice fatto di esistere, di non essere integralmente dark matter, informe e caotica energia ingovernata, assoluto nulla, la materia stessa evoca, ed invoca, un ordine ulteriore, anche se a noi ancora ignoto, una luce ulteriore e più pura.
Si dice che, una volta formulata la Legge del Tutto (di fronte a cui restò smarrita anche la mente di Einstein, e con cui lotta ora quella di Hawking), sarà stata dimostrata l’inesistenza di Dio, il quale non sarebbe stato libero di non creare l’universo, né di crearlo in modo diverso da quello in cui l’ha creato, e verrebbe dunque – in quanto persona – ad essere un’entità non necessaria, astratta, inaffferrabile, una vacua chimera.
Ma, si noti, l’attuale impossibilità di determinare quella legge, l’apparente totale aleatorietà e casualità della nascita dell’universo e della vita, vengono parimenti addotte come argomento contro l’ipotesi di un Dio creatore.
Sul piano logico, tanto la presenza, quanto l’assenza, alla base della genesi dell’universo, di una Legge determinata e umanamente rappresentabile, potrebbero essere addotte come argomenti sia a favore, sia a sfavore dell’ipotesi-Dio. Se tutto è nato dal caso, dal cieco colpo di dadi, dall’innecessario capriccio della materia e dell’energia abbandonate a se stesse, allora il senso dell’universo, che è comunque presente (anche solo sotto la forma del paradosso, dell’enigma, della contraddizione, dell’apparente non-senso), e che l’uomo investiga razionalmente e consciamente, con la pretesa di poterlo chiarire, deve essere ricondotto ad un Deus absconditus (al Dio salmistico che si nasconde proprio nell’ora dell’angoscia, come pure in quella della ricerca di un senso che pure pure esiste, poiché la mente dell’uomo ne reca testimonianza e traccia, ma che non pare rinvenibile nei meri fenomeni fisici); se, viceversa, sarà un giorno possibile determinare la “costante lambda”, la Legge del Tutto, ciò non implicherà l’inesistenza di Dio; confermerà al contrario, l’esistenza di un Creatore, con la cui mente quella umana, imago e similitudo della Sua, finalmente riuscita a collimare e coincidere, secondo il voto di Einstein, che negli ultimi anni voleva appunto arrivare a “pensare i pensieri di Dio”. Senza contare che la formulazione matematica di quella Legge sarà inevitabilmente approssimata, come tutte le leggi fisiche; sarà comunque, una rappresentazione umana di un pensiero divino; poiché i numeri umani saranno comunque infinitamente imperfetti in confronto ai numeri spiritales di cui parlavano Platone e Agostino; soggetti, cioè all’immanenza, al divenire, al frazionamento, al discontinuo.
La fisica è metafisica; la materia stessa sollecita una riflessione teologica e teleologica, un’indagine intorno all’Origine e alla Cosa Ultima. La fenomenologia si accorda con la metafisica proprio in questo: guardare alla realtà per trascenderla, per andare oltre, in questo orizzonte o in un altro, più alto; perché, come dice Montale, «tutte le immagini portano scritto “più in là”». Figli del caso apparente, e di un ordine celato, per ora da noi irrappresentabile, ma senza il quale non potremmo esistere ‒ cittadini di un cosmo che è così com’è perché (dice l’agnostico Hawking) se non fosse tale noi non potremmo conoscerlo, mentre siamo qui proprio per questo ‒, non possiamo far altro che ricercare le tracce perdute di quell’Ordine, i bagliori residui di quell’originario Senso.
14. Pasolini non era lontano dal vero. La “cultura popolare”, che un tempo aveva una sua ricchezza ancestrale, atavica, etnica, archetipica, fatta di rituali, di credenze anche irrazionali, anche di mere superstizioni, ma ricche di fascino simbolico, fondata su un cattolicesimo certo oscurantista e semplicistico, ma sincero, genuino, sentito (mirabilmente rappresentato, ad esempio, da uno scrittore oggi un po’ dimenticato, Nicola Lisi), è ora divenuta, al contrario, estremamente artefatta, materialistica, edonistica, a suo modo sofisticata (sul piano tecnologico ed esteriore), ma senz’anima, priva di valori e di simboli, scandita da rituali ugualmente rigidi, complessi, macchinosi, artefatti, ma privi di qualsiasi significato ulteriore, più profondo e più alto, esauriti e finiti in se stessi.
Ciò che è venuto a mancare è il pensiero simbolico. Un oggetto, un bene di pregio e di prestigio, un cosiddetto status symbol, non è, invero, simbolo di nulla; non simboleggia, non rappresenta la posizione sociale o la ricchezza; esso, semplicemente, direttamente, piattamente, è quella ricchezza e quella posizione, o ne è la diretta, causale conseguenza. Esso è simbolo della ricchezza solo nel senso, primordiale, irriflesso, animale, in cui il fumo è il simbolo del fuoco, e il sangue (sparso a fiumi proprio per il denaro, il petrolio, i diamanti) è simbolo del dolore e della morte. Se il totemismo e il feticismo antichi nascevano dall’irrazionalità, quelli odierni nascono, invece, da una razionalità, da un calcolo pervertiti e disumani, e sono ancora più crudeli e cruenti.
L’oblio dell’alta cultura va di pari passo con il declino di ogni forma di spiritualità che non sia banalizzata e degradata a moda e costume transitori, o a generica contaminazione; entrambe le forme di regresso e di involuzione sono legate al declino del pensiero simbolico ed ermeneutico, che almeno sopravviveva, magari in forma irriflessa, nell’antica mentalità magico-religiosa, in cui il dogma trasmesso e acquisito si fondeva con l’intuizione animistico-sciamanica.
Certo, quella cultura magica, arcaica, aveva un carattere totemico, feticistico; ma oggi, dal feticismo che aveva ad oggetto i simboli religiosi intesi come sostituti, simulacri o effigi del Padre, occultato, nascosto, rimosso od ucciso, si è passati al feticismo delle merci, alla divinizzazione, quasi, dell’oggetto, che però, in quanto transitorio, effimero, soggiacente alle mode, non ha più nulla di autenticamente sacro, non ha più nulla dell’eterno, e aliena, deforma e profana l’idea stessa della sacralità.
Le donne contemplano estatiche una vetrina di Gucci come se vedessero una divinità; ma l’anno dopo, o forse dopo pochi mesi, quegli stessi oggetti saranno divenuti obsoleti, fuori moda, sostituiti da altri, che non sono le maschere cangiantie metamorfiche della sacralità originaria, ma piuttosto i segni tangibili del fatto che il sacro non esiste più, o non viene più percepito, o è divenuto pura materia – neppure più panteismo, perché il panteismo divinizza una materia vivente che l’uomo non può creare dal nulla, mentre molti venerati capi di abbigliamento nascono proprio dall’uccisione di esseri viventi – l’uomo che regala la pelliccia non è diverso dal cacciatore del neolitico che uccide la belva, con la differenza che l’uomo moderno non ha più il coraggio, la motivazione o la necessità di affrontarla direttamente.
La prostituzione delle ragazzine che si vendono per un cellulare o un vestito firmato è, a suo modo, “prostituzione sacra”, hierodoulía, come la chiamavano gli antichi, “asservimento al Sacro”; ma il sacro non è più una divinità immortale, bensì una moda (sorella della morte) decisamente finita, transitoria, mortale. Il feticismo delle merci è la morte di Dio. Nietzsche congiunto a Marx.
In tal senso, il vecchio cattolicesimo dell'”umile Italia”, come la chiamava dantescamente Pasolini, era forse preferibile all’odierna idolatria del denaro, del lavoro, della prestazione; e non so fino a che punto sia un bene (non foss’altro per le finanze dei mariti) che, in una società ormai secolarizzata (sulla quale non mi sembra gravi in modo tanto pesante la minaccia dell’oscurantismo religioso paventata da alcuni), il centro commerciale abbia sostituito il tempioe il sagrato.
15. Il neo-realista, in quanto antimetafisico, antiteologico, laico, tendenzialmente irreligioso o antireligioso, sarà, si presume, pienamente favorevole alla ricerca scientifica e all’azione modificatrice dell’uomo sulla natura, in particolar modo nella forma della sperimentazione genetica (quella in cui, emblematicamente, l’uomo si sostituisce al supposto Creatore), condotta sulla natura umana e, a maggior ragione, su quella fenomenica. Ma, nello stesso tempo, il neo-realista nega l’antropocentrismo, la presunta superiorità dell’uomo rispetto alle altre forme viventi, e afferma anzi, su basi biologiche ed evoluzionistiche, la continuità e la comunanza fra l’uomo e le altre forme e sfere del vivente (tanto che Jean-Marie Schaeffer ha potuto di recente, ma non certo per primo, teorizzare una fin de l’exception humaine).
Allora, bisogna decidersi. Come tutte le eredità scomode, impegnative, ingombranti, l’antropocentrismo si rifiuta in toto, o si accetta in toto. Se l’uomo non è il centro del mondo, allora non si vede come possa arrogarsi il diritto di modificare geneticamente la natura, o manipolare gli embrioni; se egli soggiace appieno alle leggi biologiche, tanto da essere privo del libero arbitrio, allora non si vede e non si spiega come egli possa avere la facoltà, e anche solo la possibilità materiale, fattiva, diporsi al di sopra di quelle leggi fino a modificarne, o interromperne, il corso. Se l’uomo non è superiore alla natura, ma parte di essa (come, del resto, nella visione francescana), egli non potrà non solo manipolare un embrione, ma neppure interrompere una gravidanza.
Se invece si riafferma l’idea dell’uomo misura di tutte le cose, dell’uomo «modello dello mondo», come si legge in un appunto del peraltro quanto mai realista ed antiplatonico Leonardo, allora non si vede come essa non possa valere, in un’ottica teologica, anche per giustificare l’immagine cristiana, e segnatamente cattolica, dell’uomo imago Dei, immagine della divinità, libero artefice del proprio destino, e in certa misura di quello del creato.
La Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola (che forse al neo-realista apparirà una vizza e fetida reliquia del vecchio umanesimo, da bruciare in un salutarerazionalistico rogo, ma che resta uno dei capisaldi della modernità) non è, a ben vedere, che una parafrasi libera ed innovativa di passi della Genesi, e dei loro commenti patristici. L’uomo è centro del mondo, al di sopra di tutte le creature, libero di decidere cosa diventare, se innalzarsi alle stelle o regredire alla materia bruta (e il pensiero sembra, nella storia, trovarsi, in modo ricorrente, davanti a questo bivio); può, dunque, elevarsi al di sopra di se stesso, trascendere se stesso, ma non disporre liberamente e arbitrariamente dei suoi simili, poiché raggiungerà il suo compimento pieno e supremo solo in solitaria caligine Patris, andando incontro ad un Mistero che lo trascende, abbandonandosi all’abbraccio di un Padre celeste che l’ha creato, che è stato quasi costretto a crearlo perché il cosmo raggiungesse la celebrazione della propria autocoscienza, della propria coscienza riflessa, ma al quale l’uomo stesso non può pretendere (in modo faustiano, luciferino, prometeico) di sostituirsi.
15. Chi (come in genere i materialisti e gli atei) nega la libertà dell’uomo, cessa ipso facto di essere filosofo, e forse di essere intellettuale o scrittore tout court. Egli ammette, anzi afferma, di non essere libero in ciò che pensa e scrive. Ogni suo pensiero, ogni sua parola sono dettati dal determinismo, o viceversa dal cieco caso; comunque, non esprimono la sua individualità, la sua natura, la sua etica. Inutile, allora, se si nega la libertà dell’uomo, tuonare contro l’oscurantismo, il dispotismo, l’imperialismo, qualsiasi altro ismo; essi sono tutti inevitabili, e nessuno ne è responsabile, appunto perché la libertà, e dunque la responsabilità e la scelta, non esistono. Se l’Impero domina il mondo con le bombe, ciò è insito nella legge del più forte, e dunque perfettamente conforme al determinismo biologico. Se il Vaticano obnubila le coscienze, queste ultime comunque non sono libere né di seguire i suoi dettami, né di non seguirli, e neppure il Vaticano è libero di scegliere cosa vietare, cosa consentire e cosa imporre. Del resto, la memetica non insegna forse che anche le credenze religiose sono trasmesse per via ereditaria, come il corredo cromosomico? Se così è, allora convertirsi, rinnegare, abiurare, essere credenti, atei, agnostici, comunque non dipende da una scelta individuale, ma dall’ereditarietà, o dal caso. Allora, gli atei non hanno diritto di accusare i credenti di fideismo, più di quanto i credenti non abbiano il diritto di accusare gli atei di empietà. E nessun delitto dovrebbe essere punito,nessuna virtù celebrata.
16 In effetti, può darsi che esista un sottile ed insidioso nesso fra l’alienatio mentis della mistica (la mente che esce da se stessa per andare incontro al Divino: alienatio, allora, non troppo diversa dall’ek-stasis in cui Heidegger, rispondendo a Sartre, vedeva l’essenza dell’esser-ci come differenza e deiezione) e l’alienazione dell’uomo ridotto a consumatore, e a merce egli stesso.
Ma se la prima nobilita l’uomo, la seconda lo svilisce. L’una e l’altra, innegabilmente, lo snaturano, lo narcotizzano, lo allontanano dalla realtà. Ma quale realtà, oggi? “Dov’è la realtà, dove il fantasma”, si chiede un personaggio di Pirandello; e possiamo chiedercelo anche noi, nell’era della scomparsa dei fatti, delle guerre televisive, dell’affabulazione mediatica.
Forse, paradossalmente, nell’esperienza soggettiva del pensiero sacro (sia esso speculativo o mistico, argomentativo o intuitivo), la Verità è più tangibile, meno illusoria, che nei presunti fatti, o nella loro rappresentazione (un opinionista che parla del Tibet ha di esso una percezione e una notizia ancor più remote, mediate e probabilmente mistificate di quelle che il devoto e il teologo, e più ancora il poeta, possono avere del Divino).
Io credo che la monaca chiusa nella cella (la “vergine romita” di Foscolo, che almeno può sentire, quasi sensualmente, il sacro, levare al Nulla che venera una musica celeste che nessuno ascolterà: “Se gli azzurri del cielo, e la splendente / Luna, e il silenzio delle stelle adora, / Sente il Nume”) sia più libera dell’operaio aggiogato alla catena di montaggio.
Il quale ora, con Marchionne, non ha nemmeno più i dieci minuti di pausa per alzare la schiena e la testa: fintantoché è nella fabbrica, all’interno delle ore di vita che deve vendere, o che gli vengono estorte per il suo bisogno (non uomo ma instrumentum loquens, anzi nemmeno loquens, perché a differenza degli schiavi antichi non può neppure gemere, gridare o cantare), è, come gli schiavi della caverna di Platone, impossibilitato anche a rivolgersi per vedere la luce.
17. Non è da escludere che proprio la libertà possa offrire una possibile soluzione (certo non completa, né definitiva) al problema del Male, uno dei più forti argomenti di chi nega l’esistenza di Dio.
Non basta dire, come fa un pensiero filosofico e teologico millenario, che Male e Bene sono solo modi cogitandi, visioni soggettive, se non egoistiche ed utilitaristiche, della mente umana; che ciò che a noi appare un male può invece essere un Bene nel progetto, nel disegno, nella oikonomìa come dicono i Padri, del Divino. Se l’uomo è imago Dei e similitudo Dei, e nel suo essereimmagine di Dio deve, come dice un Santo Medievale, agnoscere dignitatem suam, vedere e ri-conoscere la propria dignità, la «scintilla divina» deposta in lui dal Creatore, allora non è possibile che il Figlio dell’Uomo, l’Uomo-Dio e il Dio-Uomo, abbiano, del Male e del Bene, una visione così abissalmente remota ed avulsa da quella dell’uomo terreno; tanto più che proprio da Dio, dalla sua legge naturale e rivelata, deriva all’uomo il criterio del Male e del Bene, la Scientia Boni et Mali a cui, come dice la Genesi, l’uomo non può pretendere di aspirare da solo, con le sue sole forze, allungando la mano fino al frutto proibito.
Né si potrà dire, o almeno non in tutti casi, che il Male non esiste positivamente, data l’infinita bontà di Dio, ma è solo assenza, o distorsione o fraintendimento, del Bene; ragionando sicut daremus non esse Deum, se da un lato l’infinita bontà divina è solo postulata a priori, l’esistenza del Male è invece vivamente e dolorosamente avvertita dall’uomo nella tangibilità esperienziale dell’«individualità infelice».
La risposta è, allora, nella libertà: libertà della Natura, le cui leggi contemplano, nel loro margine di aleatorietà, d’imprevedibilità, di quantistica e relativistica oscillazione, la possibilità dell’errore, della deformazione, della malattia, della catastrofe (le cellule che si riproducono caoticamente e devastano un organismo vivente, come la terra che si squarcia d’improvviso e devasta città e nazioni); e libertà dell’uomo, che può compiere il male, nuocendo a se stesso e ai suoi simili.
L’uomo ha, scritta, nel suo destino, la libertà; egli è, paradossalmente, condannato ad essere libero, è sempre libero nelle sue scelte, anche senza bisogno di postulare l’ateismo a garanzia, e in funzione, di questa libertà (la volontà del male può annidarsi anche nel credente).
E la natura è libera, nelle sue impersonali, vacillanti, non rigidamente deterministiche leggi, di cagionare il male. Se la natura non fosse libera, libero non sarebbe neppure l’uomo, che della natura è parte, pur rappresentandone in certo modo, in quanto coscienza riflettente, riflessa, speculativa, e dunque in quanto autocoscienza (in quanto, dice Agostino, «Trinità riflessa», Verbum mentis che conosce e pensa e riflette se stesso nel pensiero e nel linguaggio come il Figlio nel Padre attraverso lo Spirito), una sorta di compimento ultimo e supremo.
Dice Hans Jonas che Dio, creando il mondo, abdica ad una parte della propria onnipotenza, affinché la natura, e l’uomo che ne è parte, siano liberi. Più che di una abdicazione, si tratta di una volontaria concessione. Ma è certo suggestiva, sempre nella tradizione ebraica, l’immagine cabalistica dello tzimtzum, del Dio che crea l’universo ritirandosi da esso fino a svanire: nei termini della cosmologia contemporanea, un Dio che, nell’universo in rapidissima espansione, a partire da un istantone originario, da una singolarità primordiale, e da una condizione in cui la variabile tempo era pari a zero, si ritira, con moto uguale e contrario, nell’immateriale e puntiforme singolarità della sua trascendenza, della sua eterna assenza, della sua possibilità infinita (il possest di Cusano), della sua intangibile pensabilità. Non la dantesca «Gloria di colui che tutto move», l’emanazione neoplatonica del Sole che è infinita bellezza, inesauribile Bene; ma, piuttosto, il Deus absconditus della tradizione sapienziale ebraica, quello che «nell’ora dell’angoscia si nasconde» ‒ forse per indurre l’uomo a più assiduamente ricercarlo.
18. Ma, forse, chi dice: «Io sono libero» ‒ chi dice, come Dante: «Tu m’hai di servo tratto a libertate» ‒, quegli nega e rovescia il determinismo non solo a parole, ma nei fatti: perché il Determinismo stesso non concederebbe mai all’uomo la libertà di proclamarsi, e di sapersi, libero. Forse, si obietterà, quella libertà potrebbe essere solo un’illusione, cui l’uomo viene indotto dalla natura stessa. Ma allora si dovrebbero attribuire alla Natura una sottigliezza, un’intenzionalità, una deliberazione, insomma una personalità, degne di un intelletto divino, o diabolico; e dalla sfera fisica si ascenderebbe, nuovamente, inevitabilmente, a quella etica, e a quella metafisica.
19. Peraltro, il filosofo (che comunque, proprio per questo, torna ad essere, inevitabilmente, ermeneuta, forse parassita del discorso altrui, comunque ‒ per citare Zygmunt Bauman ‒ interprete, non legislatore, dunque ancora una volta in una posizione debole) ha tutto il diritto di andare oltre l’oggetto dell’interpretazione, attribuendovi un valore culturale, uno spessore speculativo e un valore cognitivo che esso di per sé non ha, o almeno non mostra e non palesa (mentre l’arte e il pensiero, in genere, si pongono come tali, rivendicano, e giustamente, la loro esteticità e la loro intellettualità) . Comprendere l’opera innanzitutto come, e poi meglio, dell’autore stesso, è, fin da Schleiermacher, uno dei cardini dell’ermeneutica. E sono io il primo a dire che l’interprete, il critico, l’ermeneuta, sono essi stessi artisti e creatori, e dunque, in certa misura, visionari ed affabulatori, forgiatori essi stessi, e forse anche consapevoli vittime, di visioni, inganni, miraggi, sovrapposizioni dell’io al non-io, esteriorizzazioni dell‘homo interior, percezioni della realtà come produzione o estroflessione del soggetto. Come dice Wilde, è proprio grazie alle interpretazioni libere ed infedeli se «the picture becomes more wonderful to us than it really is, and reveals to us a secret of which, in truth, it knows nothing». Si riferiva, invero, alla Gioconda e alla lettura che ne diede Walter Pater… Diciamo che nel caso di una serie televisiva lo sforzo dell’interprete deve essere certo più intenso, l’arbitrio o l’azzardo maggiori; ma la natura, il fine, lo spirito dell’»interpretazione creatrice» sono affini; e non si sceglie l’epoca in cui vivere. Tuttavia, la sovrainterpretazione del filosofo-ermeneuta, nella misura in cui non si risolva nella superficialità dell’instant book e della polemica estiva, non ricadrà, per sua fortuna, nella sfera di quella cultura di massa da cui trae spunto. La pagina del filosofo, se egli sarà degno di tal nome, farà parte comunque, inevitabilmente, della cultura alta, anche se non più esclusivamente specialistica. Sorta all’esterno della cultura del testo, della civiltà del pensiero e della riflessione, insomma in senso lato della letteratura, essa finirà inevitabilmente, e forse volutamente, per rientrarvi. Nato dalle cose, il pensiero non ricadrà cosa fra cose, ma resterà distinto da una realtà plastificata, da un mondo reificato e feticizzato a merce. Proprio per questo, neo-realismo e popsophia (proprio perché coltivati da pensatori seri e preparati, non da improvvisati divulgatori o da macchiettistiche figure alla Così parlò Bellavista) non riusciranno nell’intento di allargare il pubblico della filosofia, se non nella dimensione effimera delle apparizioni pubbliche o televisive, dei riti mondani, insomma dell’esteriore e del transitorio.
20. Tutto ciò che ho appena scritto è, ovviamente, una reductio ad absurdum. O forse no. Ognuno è libero di interpretare. O forse non è libero.